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In cima alla classifica Norvegia, Svezia e Svizzera. Italia 25esima. Ultimi posti per Cina e India. Non solo Pil. Lo disse Robert Kennedy il 19 marzo del 1968 all’università del Kansas, pochi mesi prima di essere ucciso: «Il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana…».

Un paradosso che occupa le ricerche di economisti, statistici e sociologi da decenni. Una delle massime espressioni è il rapporto sulla misura della performance dell’economia e del progresso sociale voluto dal presidente francese Nicolas Sarkozy e realizzato dal Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz.

E’ un dibattito aperto. La fondazione Eni Enrico Mattei ha messo a punto la classifica 2011 dei Paesi secondo l’indice FEEM SI, che appunto si pone come strumento alternativo al pil per misurare benessere e sviluppo. Qui la classifica. L’Italia si posiziona sotto la media: 25esimo posto su 40.

L’indice prende in considerazione l’economia (investimenti in ricerca e sviluppo, pil, bilancia commerciale, debito pubblico), la società (densità della popolazione, istruzione, sanità, spesa alimentare, sanità privata, sicurezza energetica), l’ambiente (gas serra, CO2, intensità energetica, rinnovabili, consumo acqua e biodiversità).

La performance italiana è tra le peggiori dell’Ue a 27, superiore solo a Polonia e Grecia. Si legge nel rapporto: «Tale esito è da attribuirsi principalmente alla dimensione economica. Il Pil pro capite risulta in linea con quello medio UE27, così come i fattori che stimolano la crescita, vale a dire investimento e spesa in ricerca e sviluppo. A causare la bassa prestazione della componente economica sono, invece, l’alto livello di debito pubblico e il disavanzo nella bilancia commerciale. La dimensione sociale presenta il risultato più alto tra i pilastri della sostenibilità, anche se non può essere considerata tra le migliori a livello mondiale. Infine, anche la dimensione ambientale appare poco soddisfacente, in particolare per il limitato apporto delle energie rinnovabili nel mix energetico nazionale».

«Molti economisti oggi ci dicono che il modello di sviluppo occidentale non è sostenibile – ha detto Giuseppe Sanmarco, direttore fondazione Eni Enrico Mattei, nel presentare il rapporto – Certamente in questa fase al disoccupato interessa di più la dimensione economica, ma indici come il nostro servono a proporre politiche che cerchino di risolvere i problemi con uno sguardo che vada oltre le variabili classiche».

Carlo Carraro, presidente del comitato scientifico della fondazione Enrico Mattei e rettore dell’università Ca’ Foscari di Venezia, ha sottolineato come di «indici di sostenibilità ne esistano ormai diversi, ma in genere guardano solo i dati al passato. Il nostro è prospettico: sulla base di un modello economico è in grado di guardare al futuro».

Sulla metodologia è intervenuto Silvio Giove, professore associato dell’università Ca’ Foscari di Venezia: «Oltre alle variabili quantitative, il peso dei singoli ambiti – economia, società e ambiente – viene assegnato da un panel di esperti internazionali (il 40% italiano, ndr)».

Enrico Giovannini, presidente Istat e Conferenza degli statistici europei delle Nazioni Unite, ha concluso: «Da anni sostengo che si debba andare oltre il Pil. Arrivato all’Ocse, nel 2001, mi dissero di occuparmi della misura dello sviluppo sostenibile. Ci è voluto tempo, ma oggi anche la politica si è accorta che è importante. Anche l’Istat tiene conto di nuove variabili. Solo che lo sviluppo sostenibile è un concetto incredibilmente difficile da misurare. La dimensione sociale è la più sfuggente».

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